Il termine “geoarcheologia” è stato introdotto verso la fine degli anni ‘60 allorquando iniziò a delinearsi una nuova disciplina scientifica la quale, facendo ricorso a concetti e tecniche tipici delle Scienze della Terra, si propose di fornire soluzioni a problematiche di carattere archeologico con un approccio tipicamente multidisciplinare.
Lo sviluppo di tale disciplina si deve ai contributi iniziali di Cornwall & Butzer (Soils for the Archaelogists, 1958) e di Butzer K. (Environment and Archaeology: An introduction to Pleistocene Geography, 1964) i quali hanno di fatto introdotto l’utilizzo di metodi propri della geologia per la classificazione di siti preistorici e per la relativa ricostruzione paleoambientale. Conseguenzialmente, l’intervallo di tempo in cui opera la geoarcheologia corrisponde a quello relativo alla comparsa, ed evoluzione, dell’uomo, cercando di ricostruirne la cronologia, le stratigrafie ed i paleoambienti.
In definitiva, e considerato il carattere generale di tali ricerche, il compito del geoarcheologo consiste nella comprensione degli effetti dell’impatto antropico in termini di modifiche del territorio, cercando di scoprire come ricostruire un pattern insediativo da un determinato sito di interesse, se in esso si evidenziano fenomeni di ricorrenza e a quali cause tali fenomeni sono eventualmente attribuibili. Non ultimo, il suo ruolo comprende anche lo studio dello stato di conservazione dei manufatti, dei materiali lapidei e delle condizioni ambientali che hanno sotteso gli eventuali fenomeni di degrado.
Finalità ed usi principali della geoarcheologia
Dalla breve introduzione appare evidente che tra gli scopi primari del geoarcheologo compare la caratterizzazione delle materie prime rinvenute in un antico sito, ed usate nella fasi costruttive di una determinata struttura, nonché della loro differenziazione per provenienza, qualità e differenti usi nelle varie dominazioni; ciò comporta che nelle valutazioni iniziali debba essere tenuto conto della reperibilità, nei vari periodi storici, dei materiali della loro qualità in funzione della disponibilità e, contestualmente, del loro trasporto e uso finale. In altre parole nelle prime fasi di studio di un sito è essenziale un corretto campionamento propedeutico alla ricostruzione delle “memorie” dei materiali, ovviamente sotteso da un inquadramento geologico e geomorfologico dell’area nel quale inquadrare correttamente il paleoambiente rappresentato in termini evolutivi. Seguono, quindi, le analisi di laboratorio sui materiali, solitamente condotte con metodologie tipicamente mineralogico – petrografiche, al fine di caratterizzarne la tipologia, la qualità, lo stato di conservazione e gli eventuali complessi fenomeni di degrado.
In quest’ultimo caso occorre evidenziare la naturale ricerca dei materiali lapidei di un equilibrio con l’ambiente circostante, la cui comprensione implica un’attenta valutazione sia dei fattori endogeni (riconducibili alle condizioni chimico-fisiche iniziali dei materiali) sia di quelli esogeni (tra i quali i fattori climatico - ambientali e/o quelli derivanti dalle inevitabili modifiche antropiche); tutti elementi essenziali per la stesura, ed esecuzione, di un corretto restauro conservativo.
Metodologie analitiche
Un’altra importante finalità del geoarcheologo, in caso di assenza di documentazioni relative ad un sito, consiste nella datazione e/o individuazione dei cambiamenti apportati alle strutture durante le varie dominazioni. In tal senso, le tecniche più “semplici” utilizzate per lo studio dei campioni sono la diffrattometria a raggi X per polveri (XRPD) e la microscopia ottica.
La prima metodologia, di tipo distruttiva in quanto condotta su porzioni del campione ridotte in polveri delle dimensioni di 10 micron, consente di determinare la composizione mineralogica principale non solo dello stesso, ma anche di eventuali composti di neoformazione e dei prodotti di degrado quali patine, pellicole e croste. La seconda, invece, consente, attraverso l’analisi di sezioni sottili al microscopio ottico polarizzatore, di classificare i campioni sulla base del loro contenuto mineralogico e della struttura intesa in termini di tessitura, paragenesi mineralogica, contenuto fossilifero o eventuali resti organici e vegetali.
In alternativa, ed in casi particolari, possono essere utilizzate metodologie di analisi più sofisticate, come la microscopia elettronica a scansione (SEM) che fornisce una visione dell’oggetto ben definita in quanto generata dall’emissione di un fascio di elettroni focalizzato sulla superficie del campione da lenti magnetiche; in questo modo è possibile ottenere ingrandimenti molto maggiori rispetto ai microscopi ottici garantendo nel contempo anche una visione tridimensionale del campione, molto utile nel caso di incrostazioni e di fenomeni di dissoluzione – ricristillazione come ad esempio nel caso della trasformazione di carbonato di calcio in gesso. infine consente di ottenere analisi elementari semiquantitative.
Per la stesura dell’articolo un doveroso ringraziamento è rivolto ai Geologi Carla Greco (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) e Leonardo Gioia (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per aver fornito l’ottimo materiale su cui lavorare. Si allega, infine, una tabella relativa alle proprietà ottiche dei principali minerali così come possono essere apprezzate al microscopio ottico descritto, costruita ai tempi degli studi universitari e rivisitata con una veste grafica più moderna.
PROPRIETA' OTTICHE DEI MINERALI