PREMESSA
Successivamente al sisma del 24 agosto con epicentro vicino Accumuli, ho rilasciato un’intervista televisiva nella quale ho dichiarato (sostanzialmente) che le faglie appenniniche non sono tutte uguali e non sono neanche ugualmente pericolose anche a parità di estensione e profondità, dal momento che esiste una marcata differenza nel loro comportamento meccanico che differenzia quelle presenti nel versante adriatico da quelle presenti nel versante tirrenico; ora vorrei provare a fare chiarezza sull’argomento a beneficio di tutti, anche (e forse soprattutto) dei non addetti ai lavori, pur nella consapevolezza che l’argomento non può essere eccessivamente semplificato.
Per questo motivo ritengo acquisite alcune informazioni basilari sulla teoria della tettonica delle placche e sulla meccanica dei solidi continui, evidenziando che in ogni caso i risultati finali saranno davvero molto comprensivi.
Figura 1. La terra è suddivisa in gusci concentrici che si differenziano su basi chimiche e fisiche (Timothy, 2008)
MECCANICA DELLE PLACCHE NEL MAR MEDITERRANEO
La tettonica a placche risale agli anni ’60 del secolo scorso e costituisce una teoria globale capace di inquadrare in maniera organica l’evoluzione dei continenti, degli oceani e delle catene montuose partendo dal concetto che lo strato più esterno, la litosfera, è rigido e scorre (frammentandosi e/o ricucendosi) sul sottostante mantello astenosferico al cui interno agiscono celle convettive; in effetti, sulla base di studi geochimici e mineralogici, è stato scoperto che la litosfera galleggia rigidamente per differenza di densità sul mantello sottostante (figura 1), a sua volta manifestante un comportamento duttile per la presenza di una piccola quantità di Peridotite fusa (roccia eruttiva intrusiva). Secondo la teoria della tettonica delle placche la litosfera è frammentata in 12 grandi blocchi rigidi (denominate placche) in movimento rotazionale reciproco tra loro, tenuto conto che si deformano lungo i loro margini (originando i terremoti – figura 2) e che gli spazi lasciati dalla loro deriva sono compensati dalla presenza di placche minori.
Figura 2. Dalla mappa dei terremoti verificatisi nel periodo 1961-1967 è stato desunto che i terremoti si verificano lungo i margini delle placche,
laddove le stesse interagiscono generando forti sollecitazioni tettoniche contenute nel piano orizzontale (Bararangi e Dorman, 1969)
Figura 3. Dettaglio schematico dei meccanismi agenti lungo le dorsali medio-oceaniche e nelle zone di subduzione (USGS)
In particolare, lungo le fratture corrispondenti alle dorsali medio-oceaniche (figure 1 e 3) il geomateriale fuso proveniente dall’astenosfera risale ed è spinto lateralmente (raffreddandosi), mentre quello esistente (litificato) è distrutto nelle zone di subduzione dove la litosfera sprofonda all’interno del mantello per compensazione dei volumi. Le zone di subduzione (facilmente riconoscibili in figura 2) sono molto più sismiche delle altre e sono sede dei terremoti più violenti.
Passando ora all’evoluzione dell’area Mediterranea occidentale vorrei concentrami sugli effetti attuali della tettonica delle placche, trascurando la ricostruzione paleo-geografica per concentrarmi su due soli aspetti: 1) lo spostamento verso NNO della placca africana, che comprime quella euroasiatica; 2) l’apertura del Mare Tirreno, iniziata circa 14 milioni di anni fa’ e tuttora in atto, che ha generato la rotazione antioraria delle terre in fase di emersione e che in un futuro lontano porterà alla chiusura del Mare Adriatico.
Figura 4. Linea di demarcazione tra la placca africana e quella euroasiatica, con interposta la microplacca
adriatica ritenuta una propaggine della prima successivamente staccatasi; le linee tratteggiate indicano
le zone di fratturazione delle microplacca adriatica agenti come faglie trascorrenti (Anderson e Jackson, 1987)
Gli effetti di tale particolare evoluzione sono visibili in figura 4, che mostra i confini tra le placche e permette di individuare con immediatezza la localizzazione dei terremoti in Italia; chiaramente, mentre la zona di demarcazione è stata individuata da una linea, nella realtà si tratta di un’ampia fascia che copre la larghezza dell’intero appennino ed interessa, con effetti meno intensi, il territorio ai suoi lati con meccanismi focali distensivi nel lato tirrenico e compressivi in quello adriatico.
In estrema sintesi (sulla scorta di misurazioni satellitari condotte negli ultimi decenni) la penisola italiana sembra lavorare come un’asta compressa dalla placca africana: a) la cui base è incastrata presso le Alpi; b) è soggetta ad una spinta aggiuntiva verso NE dettata dall’apertura del Mar Tirreno; c) manifesta un’evidente instabilità euleriana favorita dalla subduzione della microplacca adriatica che a sua volta sottoscorre rispetto a quella africana immergendosi al di sotto degli appennini verso SO.
Figura 5. Effetti dell’apertura del Mar Tirreno
I punti b e c sono chiariti in figura 5 dove è illustrata l’evoluzione di una sezione trasversale dell’Italia centrale; quindi, in alto si vede la microplacca adriatica originariamente subducente sotto quella africana mentre nelle sezioni successive si vedono gli effetti connessi con l’apertura del Mare Tirreno (con rotazione antioraria) ai quali sono associati: 1) lo spostamento delle masse verso est, con innalzamento degli appennini (all’interno dell’ovale verde) che si muovono verso l’Adriatico (freccia diretta a destra, coerente con quella diretta verso NE di figura 4); 2) lo stiramento della litosfera che sprofonda, originando il Mare Tirreno, e genera una forza distensiva indicata dalla freccia diretta a sinistra coerente con quella diretta verso SW di figura 4. Queste forze sono le responsabili della formazione delle faglie, di tipo distensivo nella fascia tirrenica e di tipo compressivo in quella adriatica.
Figura 6. Stato di sforzo agente all’interno della litosfera, costituito da 3 componenti ortogonali tra loro
(la terza componente esce dal piano contenente la figura)
LO STATO DI SFORZO INTERNO ALLA LITOSFERA
Limitiamoci ad analizzare lo stato di sforzo agente all’interno della litosfera con l’ausilio della figura 6. In un punto qualsiasi esso assume una distribuzione di tipo radiale, dettata dalla forma pseudo-sferica della Terra; è anche vero, però, che per il limitato spessore della litosfera (di qualche decina di chilometri), lo stesso può essere ridotto ad una condizione di sforzo che agisce secondo un sistema di assi coordinati (ossia ortonormali tra loro) e rispetta il seguente tensore espresso in notazione indiciale secondo la convenzione di Einstein:
1)
Se si ipotizza, per simmetria geometrica, che tutti gli sforzi siano sforzi principali il tensore dato dall’equazione 1 perde la componente deviatorica (s’ij) e viene a coincidere con quella isotropa p’; in altre parole si può ritenere, con ragionevole approssimazione, che lo sforzo agente all’interno della litosfera sia di tipo idrostatico ed abbia 3 componenti uguali, ortogonali tra loro, ognuna pari al valore assunto dal carico litostatico.
Il carico litostatico che agisce in un punto qualsiasi all’interno della litosfera è dato a sua volta dal peso delle rocce sovrastanti ed aumenta con la profondità con un gradiente medio dp/dz = 30 MPa/km; questo significa che ad una profondità di 5 km agisce uno sforzo di 150 MPa, pari a 15000 tonnellate per metro quadrato: uno sforzo che dovrebbe disintegrare le rocce se non fosse per lo stato di confinamento e che, nel contempo, garantisce l’impossibilità che possano aprirsi cavità. In altre parole, a profondità di qualche chilometro gli spostamenti delle rocce possono avvenire solo lungo i piani di faglia.
Allo stato di sforzo descritto occorre aggiungere le componenti tettoniche (indicate dalle frecce rosse di figura 4 e 5), esercitate dallo spostamento delle placche terrestri ed agenti sul piano orizzontale, che possono sommarsi o sottrarsi alle componenti orizzontali.
Figura 7. I diversi tipi di faglie con il relativo stato tensionale (USGS)
GEOMETRIA DELLE FAGLIE E LORO INTERAZIONI
Corollario: se lungo gli Appennini coesistono due differenti stati tensionali, allora devono essere presenti due differenti tipi di faglie capaci di spiegare i differenti meccanismi focali di figura 4: a) le distensive nel settore tirrenico; b) le compressive nel settore adriatico.
Prima di entrare nel merito è utile riferirsi alla figura 7 nella quale sono illustrate le possibili faglie, tutte esistenti in Italia; in particolare:
- le faglie dirette o distensive (in alto a sinistra): sono presenti nel settore tirrenico dell’Appennino e sono generate dalla onnipresenza dello sforzo verticale e dalla diminuzione di quello orizzontale per effetto della distensione della litosfera dovuta all’apertura del Mare Tirreno; sostanzialmente, si esplicano in una compressione verticale ed una trazione orizzontale;
- le faglie inverse o compressive (in alto a destra): sono presenti nel settore adriatico dell’Appennino e sono generate dall’incremento dello sforzo orizzontale dovuto alla spinta esercitata per effetto della rotazione antioraria dovuta all’apertura del Mare Tirreno; sostanzialmente, si esplicano in una trazione verticale ed una compressione orizzontale;
- le faglie trascorrenti (in basso), che frammentano la microplacca adriatica (linee tratteggiate di figura 4).
Figura 8. Effetti di superficie associati ad una faglia trascorrente (USGS)
In estrema sintesi, nelle prime una parte della litosfera si abbassa, nelle seconde si alza e nelle terze le porzioni a contatto semplicemente scorrono tra loro (foto 8).
Rimane un solo elemento da chiarire, riguardante la reale geometria delle faglie distensive e di quelle compressive, tenuto conto che le prime sono sempre molto più inclinate delle seconde; ma questo conduce all’introduzione della resistenza al taglio delle rocce (costituente una misura della resistenza allo scorrimento lungo i piani di faglia) che indichiamo con il parametro f’ e misuriamo in gradi; quindi, una roccia con f’ = 40° avrà maggiore resistenza di un’altra con f’ = 30° e scorrerà con maggiore difficoltà o, letto in altra maniera, resiste più a lungo potendo accumulare maggiore energia di deformazione indotta dai movimenti delle placche terrestri.
Figura 9. Rapporti tra lo stato di sforzo agente nella litosfera, la resistenza al taglio delle rocce
e l’inclinazione delle faglie dirette o distensive (Meccanica delle strutture geologiche e geotecniche)
Figura 10. Rapporti tra lo stato di sforzo agente nella litosfera, la resistenza al taglio delle
rocce e l’inclinazione delle faglie inverse o compressive (Meccanica delle strutture geologiche e geotecniche)
Fortunatamente il problema, anche se richiede sviluppi matematici abbastanza lunghi e laboriosi (che evito, invitandovi a leggerne i dettagli nei miei libri), conduce ad una soluzione davvero molto semplice poiché l’inclinazione delle faglie sembra rispettare le seguenti formulazioni confermate da numerose evidenze reali e sperimentali:
- faglie distensive (figura 9): i = 45°+f’/2 (risponde ad una condizione di rottura attiva)
- faglie compressive (figura 10): i = 45°-f’/2 (risponde ad una condizione di rottura passiva).
Ciò significa che in una roccia avente f’ = 40° (un valore abbastanza usuale) troveremo faglie distensive inclinate di 65° rispetto all’orizzonte e faglie compressive inclinate di 25°.
Figura 11. La non linearità del comportamento meccanico delle rocce conduce
allo sviluppo di faglie curve (Meccanica delle strutture geologiche e geotecniche)
Anche se le figure 9 e 10 forniscono un’idea semplice delle faglie, in realtà la loro superficie può essere considerata lineare soltanto per profondità modeste, dell’ordine di qualche centinaio di metri; al contrario, per l’analisi delle usuali faglie - aventi profondità di diversi chilometri - occorre invocare la non linearità del comportamento meccanico delle rocce alla quale corrispondono superfici curvilinee delle faglie (figura 11): le stesse che possiamo osservare nelle sezioni geologiche di figura 12, distanti tra loro una sessantina di chilometri e ricalcanti l’orientamento delle frecce rosse di figura 4.
Figura 12. Sezioni geologiche che ricalcano le frecce rosse di figura 4 (l’est è a destra); in alto, passante per Campo Imperatore (progetto Carg);
in basso, passante per il Monte Vettore e Cima del Redentore (la cui faglia distensiva ha generato il sisma del 24 agosto 2016);
le due sezioni confermano il corollario introdotto ad inizio paragrafo
Appare evidente che le faglie compressive sono effettivamente poco inclinate, corrispondono alle zone di avanzamento dell’Appennino verso est ed affiorano sul versante adriatico; al contrario, le faglie distensive sono sempre molto inclinate, corrispondono agli effetti distensivi generati dallo sprofondamento della litosfera nel Mar Tirreno e sono presenti soltanto in questa porzione dell’Appennino centrale; non solo: se assimilassimo le faglie di figura 12 a delle rette scopriremmo che la loro inclinazione conduce ad un f’ medio (tenuto conto della presenza di diversi tipi di rocce) di circa 40°.
Dalla lettura dei dati si vede facilmente che, a parità di lunghezza, le faglie compressive sviluppano un’area maggiore rispetto a quelle distensive; quindi, intuitivamente, si può supporre che possiedano una maggiore capacità areale di assorbire l’energia di deformazione indotta dal movimento delle placche terrestri, anche se tale elemento conduce ad un risultato davvero inaspettato (lo scopriremo alla fine).
Per quanto concerne l’interazione tra le faglie occorre dapprima considerare che un terremoto non è altro che l’effetto connesso con lo scivolamento di blocchi rocciosi lungo un piano di faglia, favorito dal superamento della resistenza al taglio delle rocce da parte degli sforzi impressi dai movimenti delle placche tettoniche; il risultato è l’emissione di onde sismiche e la generazione di uno stato di sforzo cosismico, che tende ad alterare lo stato di sforzo delle faglie vicine influenzando l’attività sismica dell’intera struttura geologica alla quale appartiene la faglia che per prima si è attivata; quindi, se tale effetto tende ad essere marcato nei fasci di faglie allineate e molto vicine (com’è accaduto per le faglie attivatesi in sequenza tra il 24 agosto e il 30 ottobre 2016), al contrario devono ritenersi indipendenti quei terremoti aventi sorgenti separate da una distanza sufficientemente grande rispetto alla faglia di prima attivazione.
Nel caso delle faglie di figura 12, l’attivazione della faglia di Cima del Redentore può portare a sollecitare pericolosamente le faglie ad essa parallele ed uscenti fuori dalla figura; ossia, nell’ipotesi che le due sezioni fossero molto vicine, la faglia di Cima del Redentore potrebbe indurre l’attivazione della faglia passante al di sotto del sondaggio di Monte Aquila. Allo stesso modo, risulta alquanto improbabile che l’attività sismica sulle faglie distensive possa esercitare un’azione attivatrice sulle faglie compressive, tenuto anche conto dell’azione stabilizzatrice esercitata dal peso dell’Appennino sovrastante; al massimo, possono indurre terremoti di lieve entità nelle porzioni profonde delle faglie compressive, sulla cui superficie quelle distensive tendono a convergere.
Figura 13. Scomposizione dello stato di sforzo agente su un generico piano inclinato nelle
componenti parallele agli assi coordinati (Introduzione alla Meccanica del Continuo)
MECCANICA DELLE FAGLIE
Vediamo ora di analizzare il comportamento meccanico delle faglie con l’ausilio della figura 13, nella quale lo stato di sforzo è rappresentato dal vettore Ti aventi componenti T1, T2 e T3 calcolabili rispetto ad un versore n (aventi coseni direttori n1, n2 ed n3) mediante la seguente relazione:
2)
Figura 14. Scomposizione dello stato di sforzo agente su un generico piano inclinato nelle
componenti normali e tangenziali (Introduzione alla Meccanica del Continuo)
Ora, se si esprime lo stato di sforzo che agisce all'interno della litosfera nello spazio degli sforzi principali di Haigh-Westergaard, possiamo agevolmente calcolare - a partire dall’equazione 2 - le componenti che agiscono perpendicolarmente e tangenzialmente ad un piano inclinato di un angolo alfa, come nel caso delle faglie (figura 14):
3)
La componente verticale dello sforzo (diretta secondo la forza di gravità) abbiamo già visto valere p:
Per calcolare la componente orizzontale occorre sommare a p lo sforzo tettonico (dato dalle frecce rosse di figura 4) in valore assoluto (per il momento trascuriamo se lo sforzo tettonico si somma effettivamente, come nel caso delle spinte compressive, o si sottrae come nel caso di quelle distensive):
Allora, le equazioni 3 possono essere riscritte come segue:
ossia:
Si assume (su basi sperimentali) che il comportamento a rottura delle rocce risponda al criterio di snervamento di Mohr-Coulomb con legge di flusso associata (ipotesi semplicistica ma idonea allo scopo), scritta in funzione della presenza dell’acqua contenuta nei pori (capace di ridurre lo sforzo di un valore p’, favorendo lo slittamento sul piano di faglia) e dell’attrito statico (che moltiplica il contenuto tra parentesi):
Si noti che l’attrito statico è pari a tangente di f’, ossia dipende dalla resistenza al taglio delle rocce che ho utilizzato per costruire le figure 9, 10 e 11. Affinché si verifichi lo slittamento deve valere la seguente condizione:
Nell’equazione 9 possiamo inserire le relazioni 7 per ottenere con pochi passaggi matematici:
I segni + – identificano il comportamento delle faglie compressive e di quelle distensive in relazione a quanto visto con la figura 7. Dall’equazione 10 ricaviamo, sempre con pochi passaggi matematici, il valore dello sforzo tettonico responsabile dell’attivazione delle faglie:
L’equazione 11 afferma che lo sforzo tettonico varia di intensità con il variare dell’angolo di inclinazione delle faglie; per trovare l’inclinazione capace di favorire lo slittamento (ovvero alla quale corrisponde il massimo sforzo tettonico) occorre minimizzare la funzione calcolandone la derivata prima rispetto ad alfa per poi annullarla:
Con pochi passaggi si trova:
L’equazione 13 afferma che l’inclinazione delle faglie dipende dall’attrito che a sua volta dipende da f’, ovvero dalla resistenza al taglio delle rocce; in altre parole, è un altro modo per confermare gli elementi costruiti con le figure 9, 10 e 11. Utilizziamo ora due relazioni trigonometriche note:
In esse possiamo sostituire il valore trovato con le relazioni 13 per ottenere (con alcuni passaggi matematici):
Le equazioni 15 possono, infine, essere inserite nella relazione 12 per giungere alla formulazione cercata:
L’equazione 16 afferma che le faglie compressive si attivano per uno stato di sforzo maggiore rispetto a quello necessario alle faglie distensive, a conferma di quanto intuitivamente descritto precedentemente sulla base delle loro dimensioni. Ad esempio, per f’ = 26,56° si ottiene un attrito statico di 0,5 e si vede che le faglie compressive si attivano per uno sforzo 2.6 volte superiore rispetto a quello necessario alle faglie distensive; allo stesso modo, per f’ = 40° il rapporto tra gli sforzi aumenta a 4.6.
Letto banalmente in questo modo sembra che le faglie compressive siano più pericolose; fortunatamente, viste le loro dimensioni, è vero il contrario poiché nel caso dei fasci di faglie di figura 12 è più facile che la combinazione degli sforzi compressivi e distensivi agenti lungo l’Appennino centrale porti all’attivazione delle faglie dirette (dove la resistenza attritiva diminuisce per la distensione) piuttosto che di quelle inverse (dove la resistenza attritiva aumenta per la compressione). Il discorso, però, è un po’ più complesso.
Figura 15. Problema del mattone su superficie scabra inclinata (Introduzione alla Meccanica delle Terre)
IL SEMPLICE MODELLO DEL MATTONE SU SUPERFICIE SCABRA INCLINATA
Per comprendere in maniera semplice il reale comportamento delle faglie compressive occorre rispolverare il concetto di mattone su superficie scabra inclinata illustrato in figura 15, che si basa sulla constatazione sperimentale che nessuna superficie è perfettamente liscia ma presenta innumerevoli asperità che influenzano l’attrito statico; si badi bene che tale concetto è stato enunciato per la prima volta da Leonardo da Vinci il quale, sulla scorta di evidenze sperimentali, affermò: l’attrito prodotto da uno stesso peso si oppone allo stesso modo all’inizio del moto, sebbene il contatto possa essere di diversa lunghezza o larghezza.
Vediamo ora di dare un senso pratico alle sue affermazioni che nel nostro caso implicano che il mattone, rettangolare, stia sempre in equilibrio (non scivoli) qualunque sia la faccia con la quale è posto a contatto con la superficie inclinata.
Il mattone posto su un piano inclinato si oppone al moto con il proprio peso P, che secondo la figura 15 può essere scomposto in una forza N perpendicolare alla superficie di appoggio ed in una forza tangenziale T. Entrambe possono essere relazionate all’area di contatto Ac per ottenere la stessa legge espressa dall’equazione 8 (questa volta, per semplicità, in assenza dell’acqua contenuta nei pori):
Si badi bene che per area di contatto Ac non s’intende l’area A della base del mattone a contatto col piano, ma la somma dell’area delle tante asperità con le quali è realmente in contatto con il piano inclinato; quindi, Ac è sempre minore di A e lo sforzo che agisce sulle singole asperità è spesso enormemente superiore allo sforzo medio che agisce sull’intera base del mattone.
Ora, se il mattone è poggiato con la faccia maggiore ci sarà un determinato numero di asperità, ognuna con la propria area, che insieme si oppongono all’inizio del moto; ma se il mattone è girato sulla faccia minore, l’assenza del moto implica che la diminuzione delle asperità deve essere compensata con l’incremento della loro superficie (dal momento che la componente N è sempre la stessa) o, in parole semplici, significa che le asperità tendono a schiacciarsi aumentando la loro superficie al punto da lasciare invariato il valore di Ac (in gergo tecnico diciamo che le asperità plasticizzano).
Figura 16. Dettaglio della lisciatura delle asperità presenti su un piano di faglia generata da ripetute
rotture fragili e successivi scorrimenti frizionali (avvenuti da sinistra verso destra)
Nel trasporre questo semplice concetto all’analisi del comportamento delle faglie compressive occorre tenere conto del fatto che la resistenza allo schiacciamento (e al taglio) delle asperità presenti lungo il piano di faglia è comunque finita e non infinita (figura 16); inoltre, occorre tenere conto del significato espresso dall’equazione 8, secondo la quale al crescere della pressione esercitata sul piano di faglia cresce anche la resistenza attritiva.
Dunque, aumenta la pressione sul piano di faglia ma cresce anche lo schiacciamento delle asperità, che tendono facilmente a rompersi generando terremoti con una frequenza superiore rispetto a quella delle faglie distensive; ovvero, le faglie compressive sembrano tendere a rilasciare con maggiore facilità l’energia di deformazione accumulata generando terremoti di magnitudo inferiore rispetto a quelli prodotti dalle faglie distensive, i cui tempi di ricarica sembrano (su basi storiche) essere più lunghi.
Figura 17. Mappa degli epicentri storici in centro Italia (INGV)
CONCLUSIONI
Viviamo in un territorio ad alto rischio sismico che si estrinseca sostanzialmente lungo l’Appennino: un rischio che comunque sembra essere diversificato tra la porzione tirrenica, dove le faglie sono distensive, e quella adriatica dove invece le rotture della litosfera manifestano un carattere di sforzo compressivo.
Se guardiamo la figura 17 vediamo con immediatezza che i terremoti più forti si sono sempre verificati nelle zone appenniniche soggette a distensione, contrariamente a quanto sembra accadere in quelle compresse. A titolo di esempio, ho evidenziato con un cerchio rosso ed uno verde gli epicentri rispondenti alle classi VII e VIII della scala Mercalli, per poi evidenziarli anche in prossimità di Teramo, la mia città. Ricordo che per la classe VII si assiste a caduta di comignoli e lesioni negli edifici; allo stesso modo, per la classe VIII si ha la rovina parziale di alcuni edifici e vittime isolate. Se si ragiona in termini di magnitudo, sembra che nelle zone adriatiche (quindi compressive) il livello più diffuso sia compreso tra 4 e 5.
In definitiva, pur nella consapevolezza di non possedere la sfera di cristallo e di dovermi basare sugli altrui studi storici, sembra lecito ipotizzare che nelle zone compresse non si debba superare la magnitudo 5.5, mentre in quelle soggette a campi tensionali distensivi il 6 sembra essere la norma. Si ricorda che il passaggio da magnitudo 5.5 a 6 implica l’aumento di un fattore 15 dell’energia liberata da un sisma.
A completamento dei dati esposti, ho reperito - da studi storici - le date di alcuni dei terremoti avvenuti recentemente nel territorio teramano, con magnitudo compresa tra 4.5 e 5.2, che sembrano confermare la tesi della frequente attivazione delle faglie compresse: 1884, 1888, 1900, 1906, 1907, 1909, 1956, 1959, 1969. A questi ho tolto gli epicentri del 1950 e 1951 (magnitudo 5.6) i quali, inizialmente attribuiti ad aree teramane, secondo studi degli ultimi anni risultano ubicati in settori soggetti a sforzi distensivi ubicati in prossimità del lago di Campotosto.
Bibliografia:
- Boschi E., Dragoni M. (2000). Sismologia. UTET, Torino
- Dragoni M. (2005). Terrae motus. UTET, Torino
- Di Francesco R., (2012). Introduzione alla Meccanica del Continuo ed alla Scienza dei Materiali. Dario Flaccovio Editore srl, Palermo
- Di Francesco R., (2013). Introduzione alla Meccanica delle Terre. Dario Flaccovio Editore srl, Palermo
- Di Francesco R., (2014). Manuale avanzato di Meccanica delle Terre. Dario Flaccovio Editore srl, Palermo
- Di Francesco R., (2016). Meccanica delle strutture geologiche e geotecniche. Dario Flaccovio Editore srl, Palermo
Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, e contestualmente leggere la storia romanzata del terremoto del 2009, consiglio La notte dell’Aquila.