Cosa possiamo imparare dall’acustica dei teatri
Immaginiamo di essere in un’ampia sala gremita di gente, seduti davanti ad un pianoforte e di premere il tasto centrale; si sentirà una nota corrispondente ad un Do (noto anche come Do centrale) per il semplice motivo che è stata emessa un’onda periodica corrispondente ad una frequenza di 261.63 Hertz, ossia ad un periodo di 0.00382 secondi.
Se l’ultima fila è posta a 34 metri di distanza dal pianoforte, coloro che vi sono seduti sentiranno la nota un decimo di secondo dopo la sua emissione, per il semplice motivo che la velocità (V) di propagazione delle onde acustiche nell’aria è (approssimativamente) di 340 metri al secondo (in realtà varia al variare della temperatura, che influisce sulla sua densità).
Figura 1. Caratteristiche fisiche dell’armonica di generica ampiezza A (in versione 1D) corrispondente al Do centrale della tastiera del pianoforte
In termini fisici, il pianoforte ha emesso un’armonica (o onda monocromatica o suono puro), ovvero un’unica onda periodica (figura 1) che possiamo caratterizzare tramite pochi parametri legati tra loro, quali la frequenza (f), il periodo (T), la pulsazione (o velocità angolare ω), la lunghezza d’onda (λ) e il numero d’onda (k). I primi due discendono dal concetto di onda periodica ed indicano rispettivamente quante volte la stessa vibra in un secondo (261.63 volte nel caso del Do centrale del pianoforte) e dopo quanto tempo si ripresenta nelle condizioni iniziali del moto (in questo caso dopo 0.00382 secondi e suoi multipli interi). I due parametri, frequenza e periodo, sono legati tra loro (così come sono legati alla velocità e alla lunghezza d’onda) dalle seguenti relazioni:
f = 1/T = V/λ (1)
T = 1/f = λ/V (2)
Gli altri parametri possono essere espressi tramite le seguenti formule:
ω = 2πf = 2π/T = Vk (3)
λ = VT = V/f = 2π/k (4)
k = 2π/λ = 2πf/V = ω/V (5)
V = ω/k = λ/T (6)
Con le equazioni citate possiamo calcolare gli elementi di figura 1 e scoprire, ad esempio, che l’onda corrispondente al Do centrale ha una lunghezza di 130 centimetri, ossia si ripresenta nelle condizioni iniziali del moto ogni 1.3 metri ovvero ogni 2π. Poiché la lunghezza d’onda è di 1.3 metri la nota raggiungerà l’ultima fila dopo aver compiuto 34 / 1,3 = 26.16 oscillazioni complete corrispondenti (a meno delle approssimazioni alla seconda cifra decimale) ad un decimo delle oscillazioni compiute in un secondo. Chiaramente, un’onda del genere può risentire della presenza di ostacoli lungo il cammino, ed è per questo che il palco è sempre rialzato rispetto alla sala antistante e la posizione delle file segue sempre una curva che scende verso di esso (figura 2).
Figura 2. Geometria tipica di una sala per una diffusione controllata del suono (pur dovendo tenere conto del contributo delle riflessioni, rifrazioni, assorbimenti e riverberi)
Proviamo ora ad immaginare di essere sempre nella stessa sala e di poter emettere un’onda periodica nel campo delle frequenze subsoniche (tipiche dei terremoti), ad esempio con un periodo di 0.2 secondi (f = 5 Hertz) ed un’ampiezza (o altezza) che non interferisce col soffitto; se la velocità dell’aria è sempre la stessa avremo generato un’onda monocromatica caratterizzata da una lunghezza d’onda di 68 metri, il che significa che arriverà all’ultima fila sempre dopo un decimo di secondo e dopo aver oscillato solo mezza volta (anche se non potremo percepirla perché, essendo al di sotto della soglia di udibilità del nostro orecchio - fmin = 20 Hertz - appartiene al campo degli infrasuoni).
Figura 3. Confronto tra le oscillazioni delle onde monocromatiche corrispondenti alle frequenze di 5 Hertz (in blu) e di 261.63 Hertz (in nero); nel caso delle onde corte è stato trascurato lo smorzamento dell’ampiezza A, che diminuisce con legge non lineare con l’aumentare della distanza dalla sorgente
In figura 3 è illustrata la differenza tra le due onde; da essa emerge chiaramente l’indipendenza dagli ostacoli nel caso di quella a più bassa frequenza.
Orbene, trascurando il fatto che raramente si assiste alla propagazione di onde monocromatiche e che qualunque suono (o qualunque terremoto) è composto da enne armoniche (per gli scopi che mi sono prefisso la differenza non ha alcuna importanza), è utile sapere che esiste una stretta connessione tra ciò che accade in un teatro, la propagazione delle onde sismiche nel sottosuolo e i principi fisici che sottendono le indagini geofisiche con le quali risaliamo alla categoria di sottosuolo (quest’ultima necessaria per poter costruire gli spettri sismici con i quali progettiamo le strutture antisismiche o analizziamo le strutture esistenti); prima, però, è importante focalizzare l’attenzione su alcune regole che emergono dall’analisi delle figure 1 e 3 e dalle equazioni 1-6:
- il periodo e la frequenza sono caratteristiche tipiche dell’onda, ragion per cui dipendono dalla sorgente (salvo modifiche spettrali per interazione con materiali diversi durante la propagazione); d’altra parte, sia sufficiente pensare alle diverse dimensioni delle onde generate dal lancio di una pallina da tennis contro un muro e dall’urto sullo stesso muro di un auto durante un crash-test; o ancora, si pensi alle onde circolari generate dal lancio di un sasso in uno stagno (figura 4);
Figura 4. Il lancio di un sasso in uno stagno genera onde circolari assimilabili ad infinite onde periodiche 1D che si propagano radialmente; si noti che la lunghezza d’onda è proporzionale alle dimensioni della sorgente (in questo caso del sasso)
- la velocità dipende dalle caratteristiche del mezzo (aria nei teatri, roccia e terra nel caso di un terremoto e acqua nel caso degli tsunami);
- la lunghezza d’onda dipende sia dalla sorgente sia dal mezzo (figura 4), ossia dipende sia dalla frequenza eccitatrice sia dalla velocità di propagazione;
- se si vuole studiare il comportamento acustico di una sala mediante un modello in scala occorre scalare in proporzione anche la lunghezza d’onda del suono; quindi, in un modello in scala 1:10 occorre usare una frequenza di 2616.3 Hz (avente una lunghezza d’onda di 0.13 metri) per analizzare gli effetti del Do centrale.
Se focalizziamo l’attenzione sull’ultimo punto scopriamo, in sostanza, che discende dall’esistenza di una stretta relazione tra le lunghezze delle onde e le dimensioni degli oggetti che possono interferire con la loro propagazione; ovvero, ognuno di noi rappresenta un ostacolo per le alte frequenze (onde corte), mentre risultiamo del tutto immersi in quelle a basse frequenze (onde lunghe) per le quali neanche un tir o un elefante riescono a contrastarne la propagazione.
Per quanto riguarda le prime tre regole è sufficiente pensare che se potessimo generare le due onde di figura 3 direttamente all’interno della roccia (come accade quando si rompe una faglia), per velocità usuali di 4000 e 6000 m/s otterremmo lunghezze d’onda rispettivamente di 15.29 e di 800 metri nel primo caso e di 22.93 e 1200 metri. Ma se la frequenza fosse di 1 Hz (valore tipico delle onde all’interno della Terra), allora la lunghezza d’onda sarebbe rispettivamente di 4000 e 6000 metri!
Figura 5. In alto: accelerogrammi nel dominio del tempo relativi ai terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre 2016 registrati a Teramo; in basso: spettri di frequenze dei due terremoti
In che modo le onde sismiche interagiscono con la roccia che attraversano
Dal paragrafo precedente è emerso, sfruttando la proprietà transitiva mutuata dall’acustica dei teatri, un elemento di fondamentale importante (esistono anche studi sperimentali in merito, troppo lunghi da citare in questa sede): la velocità di propagazione delle onde sismiche all’interno della crosta terrestre non risente dello stato di fratturazione delle rocce, salvo la presenza di importanti elementi tettonici le cui dimensioni sono tali da poter filtrare alcune delle componenti monocromatiche degli spettri sismici.
Al fine di verificare il dato si consideri la figura 5, che illustra due accelerogrammi registrati dal sismografo INGV di Teramo (la mia città) posizionato direttamente su roccia; li ho scelti perché, avendo le onde sismiche attraversato un substrato inizialmente calcareo e successivamente arenaceo, possono essere considerati rappresentativi di ciascuno degli eventi sismici (ossia, possiamo considerare trascurabili le modifiche spettrali subite rispetto alla sorgente); la stessa figura (in basso) mostra anche la maggior parte delle onde monocromatiche che li compongono (ogni picco corrisponde ad un’onda 1D del tipo illustrato in figura 1), consentendo di poter individuare la frequenza fondamentale di ciascuno di essi (quella a maggior contenuto energetico): 7 Hertz (T = 0.143 secondi) per l’accelerogramma del 24 agosto ed 11 Hertz (T = 0.0909 secondi) per quello del 30 ottobre.
Orbene, il sisma del 24 agosto è iniziato alle ore 3:36.32 ed è stato registrato a Teramo alle 3:36.37,81 con un ritardo di 5,81 secondi; il terremoto del 30 ottobre è iniziato alle 7:40.17 ed è stato registrato a Teramo alle 7:40.25,8 con un delta temporale di 8,8 secondi; poiché la distanza diretta tra i due segnali (dagli ipocentri, posti a circa 9 chilometri di profondità, fino al sismografo posto in superficie) è di circa 38 chilometri nel primo caso e di 53 nel secondo, si ottengono velocità medie di propagazione delle onde sismiche rispettivamente di 6540 e di 6023 metri al secondo (la differenza è imputabile alle diverse distanze percorse all’interno dei calcari e delle arenarie). Ciò significa che l’armonica fondamentale dei due terremoti ha attraversato il substrato con lunghezze d’onda rispettivamente di 934 metri (f = 7 Hertz) e di 548 metri (f = 11 Hertz); di conseguenza, le onde sismiche devono per forza aver attraversato la roccia senza aver subito alcuna influenza da parte del suo stato di fratturazione.
In realtà il problema è un po’ più complesso perché dovremmo separare la velocità di propagazione dei calcari (al cui interno è posizionato l’ipocentro) rispetto a quella delle arenarie (sulle quali è posto il sismografo), in considerazione del fatto che V dipende dalla rigidezza del mezzo; pertanto, al fine di evitare fastidiosi e, per i nostri scopi, inutili calcoli si supponga che la velocità di propagazione nel substrato di figura 6 sia di soli 2500 m/s (in seguito si capirà perché l’ho ridotta così tanto), alla quale corrispondono lunghezze d’onda di circa 357 metri (f = 7 Hertz) e 227 metri (f = 11 Hertz), nuovamente insensibili allo stato di fratturazione.
Figura 6. Le arenarie del substrato attraversate dai terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre sono interessate da discontinuità primarie, dovute alla sedimentazione, e da discontinuità secondarie di origine tettonica che non interferiscono con la propagazione delle onde sismiche aventi lunghezze dell’ordine delle centinaia di metri
Ora che abbiamo scoperto l’ordine di grandezza delle velocità (e delle lunghezze d’onda) di un terremoto reale dobbiamo anche scoprire quali relazioni esistono con le velocità che ricaviamo sperimentalmente con le indagini geofisiche al fine di determinare la categoria di sottosuolo; prima, però, è doveroso premettere che le velocità indicate finora sono riferite alle onde di compressione, note anche come onde P, e che ad esse sono connesse matematicamente le onde S (quelle richieste dalle normative tecniche per la definizione della categoria di sottosuolo) attraverso il coefficiente di Poisson dinamico per i cui dettagli si rimanda a Meccanica delle strutture geologiche e geotecniche (figura 7). Poiché il coefficiente di Poisson assume valori compresi nel range 0-0.5 se ne desume che la velocità delle onde Sh è sempre minore, e talora molto minore, di quella delle onde P.
Figura 7. Un terremoto, essendo dovuto allo slittamento lungo un piano di faglia, produce sempre onde P, Sv ed Sh dette anche onde di volume. Le onde P sono dovute a periodiche compressioni e dilatazioni del mezzo nella direzione di propagazione dell’onda (a); le onde Sv producono ondulazioni del mezzo nella direzione verticale rispetto a quella di propagazione (b); le onde Sh si comportano come quelle Sv, solo che sono polarizzate nel piano orizzontale e sono ritenute le più distruttive (c). E’ dimostrato sperimentalmente e teoricamente che le onde P sono quelle più veloci e che la velocità delle onde di volume dipende dalla rigidezza del mezzo (longitudinale per le P e di taglio per le Sv ed Sh)
In generale, nel caso delle onde sismiche che si propagano nella roccia vale, all’incirca, il seguente rapporto medio (il che implica che il coefficiente di Poisson vale 0.25):
VP/VSh = 1,73 (7).
Questo significa che alle velocità delle onde P di 6540 e di 6023 m/s calcolate per i due terremoti di figura 5 corrispondono VSh = 3870-3581 m/s; con VP = 4000 m/s si ottiene VSh = 2312 m/s e per un’ipotetica VP = 2500 m/s mi devo aspettare una VSh di 1445 metri al secondo.
Quindi, il motivo per cui ho scelto un valore arbitrario VP = 2500 m/s, più basso delle velocità reali di propagazione nella arenarie e della maggior parte delle rocce, è che comunque conduce ad elevate velocità delle onde di taglio: le stesse che dovrebbero necessariamente emergere dalle prospezioni geofisiche.
Figura 8. In determinate condizioni le onde sismiche possono combinarsi a formare le onde di superficie; così, dall’unione di una P con una Sv si formano le onde di Rayleigh
L’argomento non può, però, ritenersi concluso se non parliamo di un aspetto fisico inerente la propagazione delle onde sismiche, la cui utilità emergerà più avanti: ogni volta che le onde di volume intercettano una discontinuità (la superficie terrestre è la discontinuità più importante) in parte vengono riflesse combinandosi vettorialmente tra loro per formare le onde di superficie, che a loro volta si propagano lungo le stesse discontinuità; in particolare, le onde P possono combinarsi: 1) con le onde Sh per formare le onde di Love (di nessun interesse per i nostri scopi); 2) con le onde Sv per formare le onde di Rayleigh (R) le quali, possedendo una componente longitudinale ed una trasversale, si propagano secondo moti ellittici che tendono ad estinguersi rapidamente con la profondità (figura 8). In un solido di Poisson vale all’incirca VR = 0.92VSv; quindi, le onde di Rayleigh sono più lente delle onde di volume dalle quali derivano (all’ipotetico valore VP = 2500 m/s corrisponde all’incirca VR = 1329 m/s).
Si noti che le normative tecniche fanno riferimento alle onde SV.
Figura 9. Nelle indagini geofisiche si usa solitamente una piastra circolare del diametro di 30 centimetri, che viene colpita con una mazza per generare onde P ed Sv (fonte: per gentile concessione di GGM Srl)
Il fastidioso effetto scala
Premetto subito che con le metodologie che usiamo per costruire il profilo di velocità del sottosuolo introduciamo un errore, dal momento che i dati sperimentali che otteniamo derivano dalla generazione di impulsi artificiali le cui lunghezze d’onde sono scalate di uno/due ordini di grandezza rispetto a quelle sismiche reali; ovvero, sono proporzionate alla dimensione della sorgente (si vedano le figure 4 e 9), che evidentemente è sempre molto inferiore rispetto alle dimensioni delle asperità (presenti lungo il medesimo piano di faglia) responsabili della genesi dei terremoti.
Esiste, quindi, una differenza di non poco conto: la stessa differenza che corre tra un teatro reale ed il suo modello in scala nella cui analisi, però, sono scalate anche le le frequenze dei suoni.
Siamo, pertanto, in presenza di uno dei problemi classici della fisica all’interno del quale la misura di un dato non dovrebbe essere alterata dall’uso del sensore. A tal proposito esiste un esempio classico: quando ci misuriamo la febbre (in realtà misuriamo la nostra temperatura) lo facciamo con un termometro la cui massa e il cui calore sono trascurabili rispetto a noi; ma se usassimo lo stesso termometro per misurare la temperatura di una formica otterremo una misura falsata e, pertanto, del tutto inutile.
Per capire meglio il problema ho chiesto a numerosi colleghi di inviarmi i risultati di indagini geofisiche eseguite su substrato fratturato; ne cito alcune, spalmate all’incirca sull’intero territorio nazionale:
- Accumoli (in provincia di Rieti, epicentro del sisma del 24 agosto 2016), indagini masw + sismica a rifrazione eseguite su arenarie fratturate: VP = 497-1805 m/s; VSh = 230-750 m/s; VS,30 = 595 m/s; categoria di sottosuolo: B;
- Accumoli, indagini masw + sismica a rifrazione eseguite su marne fratturate: VP = 325-2143 m/s; VSh = 150-850 m/s; VS,30 = 585 m/s; categoria di sottosuolo: B;
- Crognaleto (provincia di Teramo), indagine masw eseguita sulle arenarie fratturate di figura 6: VP = 696-1396 m/s; VSh = 372-593 m/s; VS,30 = 501 m/s; categoria di sottosuolo: B;
Figura 10. In ato: lave fratturate; in basso: calcareniti fratturati (per gentile concessione del geologo Salvatore Alloro - Carlentini, SR)
- Augusta (provincia di Siracusa), indagini masw + sismica a rifrazione eseguite sulle calcareniti fratturate di figura 10: VSh = 336-867 m/s; VS,30 = 604 m/s; categoria di sottosuolo: B;
- Carlentini (provincia di Siracusa), indagini masw + sismica a rifrazione eseguite sulle lave fratturate di figura 10: VP = 1191-1822 m/s; VSh = 256-490 m/s; VS,30 = 411 m/s; categoria di sottosuolo: B;
- Castelnuovo di Garfagnana (provincia di Lucca), indagine masw eseguita su lave fratturate: VSh = 397-649 m/s; VS,30 = 471 m/s; categoria di sottosuolo: B;
- Langhirano (provincia di Parma), indagine masw eseguita su arenarie e marne fratturate: VSh = 436-650 m/s; VS,30 = 451 m/s; categoria di sottosuolo: B;
- Fonte Nuova (provincia di Roma), indagine masw eseguita su piroclastiti litoidi fratturate: VSh = 686-782 m/s; VS,30 = 643 m/s; categoria di sottosuolo: B.
Si noti che il coefficiente di Poisson è sistematicamente compreso nel range 0.3-0.4, al quale corrisponde un rapporto VP/Vsh = 1.87-2.45 (da confrontare con l’equazione 7).
Ci tengo a precisare che quanto sopra elencato non costituisce la regola poiché, anche se i risultati provengono da un lungo elenco di indagini che hanno fornito una categoria di sottosuolo B piuttosto che A (come ci si aspetterebbe essendo su roccia), gli stessi costituiscono una popolazione di dati statisticamente non rappresentativa della realtà. Restano comunque indicativi delle problematiche in cui possiamo incorrere con l’uso delle prospezioni geofisiche per l’attribuzione della categoria di sottosuolo.
Dalla lettura delle velocità emerge un dato che richiede un minimo di approfondimento, legato al fatto che la stessa roccia fornisce VP e VSh che non solo sono sempre molto più basse di quelle attese, ma tendono a diminuire approssimandosi al piano di campagna.
Figura 11. La formazione delle argille di Londra (Eocene), al pari di tutte le argille strutturalmente complesse del substrato presenti nel nostro sottosuolo, manifesta le caratteristiche fessure sub-parallele dovute al raggiungimento della rottura per scarico tensionale associato all’erosione (fonte: Introduzione alla Meccanica delle Terre)
Per la soluzione del problema occorre scomodare il concetto di detensionamento, ovvero di scarico tensionale che la roccia subisce per effetto dell’erosione in ambiente sub-aereo capace, a sua volta, di aggiungere una sovraconsolidazione meccanica a quella chimica dovuta alla cementazione per diagenesi (trasformazione della terra a roccia) o alla solidificazione per raffreddamento delle lave. Ebbene, è ampiamente dimostrato che la sovraconsolidazione meccanica: 1) non può aumentare in maniera indefinita, ma possiede un limite superiore che, coincidendo con il raggiungimento della rottura per spinta passiva, produce la formazione di fessure sub-parallele tra loro (figura 11); 2) è massima in superficie (dove sono massimi i suoi effetti - figura 10) e tende a diminuire con la profondità, con la conseguenza che la fratturazione che ne consegue segue lo stesso andamento. In poche parole, alla fratturazione di origine tettonica, che agisce a grande scala (figura 6), occorre aggiungere quella imputabile all’erosione che produce un’ulteriore diminuzione presso la superficie (favorita anche dall’alterazione della roccia) delle velocità misurate con le prospezioni geofisiche. Di contro, le onde sismiche prodotte dalle faglie non risentono affatto dei due stati di fratturazione.
Riassumendo: con le indagini geofisiche introduciamo un errore di scala che, attraverso una talora errata definizione della categoria di sottosuolo (B piuttosto che A) influisce sulla costruzione degli spettri sismici necessari per la progettazione di nuove strutture antisismiche o per la verifica di quelle esistenti; un errore di scala che dovrebbe essere corretto.
I problemi, però, non finiscono qui.
Metodi geofisici per la costruzione dei profili di velocità
Il profilo di velocità del sottosuolo è costruito ricorrendo a pochi metodi geofisici accomunati dall’uso (prevalente, ma non esclusivo) della piastra circolare di figura 9, quali:
- la down-hole;
- la sismica a rifrazione;
- la masw.
Down-hole.
La metodologia down-hole richiede la preliminare perforazione di un sondaggio che deve essere strumentato con un tubo coassiale cementato nello spazio anulare al fine di evitare fenomeni di risonanza; i sensori (geofoni tipo velocimetri) sono posti all’interno del tubo a profondità prefissate (ad esempio: ogni metro); l’energizzazione avviene in superficie con la generazione di onde P+Sv (figura 9) e/o di onde Sh (figura 12) con modalità separate. Nel primo caso, valendo VP > VSv, è sufficiente individuare l’inizio della perturbazione su ogni traccia registrata dai sensori per essere sicuri di lavorare con le sole onde P; nel secondo caso, la perturbazione e il suo inizio sono sempre e soltanto associati alle onde Sh.
Poiché è nota la distanza x tra il punto di energizzazione e l’asse del foro, per ogni punto di stazionamento dei sensori (D1, D2, ecc.) si misura il corrispondente tempo di arrivo diretto (L1, L2, ecc.); quindi, si risolve il triangolo per calcolare il tempo reale ed infine, tramite un apposito grafico dove sono riportate i tempi in funzione delle profondità, si calcolano le velocità e gli spessori dei singoli strati.
Figura 12. A sx: schema tipico per l’esecuzione delle down-hole; a dx: energizzazione in onde Sh (per gentile concessione del geologo Giorgio Di Bartolomeo)
Pregi: consente di misurare le velocità direttamente all’interno del sottosuolo, qualunque sia il suo andamento; nel caso di doppia energizzazione (in onde P ed Sh) consente di calcolare il coefficiente di Poisson dinamico che lega matematicamente i due tipi di onde fornendo il rapporto espresso dall’equazione 7.
Difetti: è più costosa delle altre metodologie.
Figura 13. Nella sismica a rifrazione sia i sensori (anche in questo caso geofoni tipo velocimetro) sia l’energizzazione sono posti in superficie; al pari della down-hole, possono essere generate onde P+Sv e/o Sh usando le stesse metodologie (fonte: Geofisica applicata)
Sismica a rifrazione.
Questa metodologia richiede che le onde generate in superficie siano rifratte dalle discontinuità del sottosuolo e tornino verso la superficie topografica per essere registrate dai sensori disposti lungo un allineamento, altresì noto come stendimento (figura 13); in genere si usano configurazione di 24-48 geofoni (posti a distanze fisse o variabili dell’ordine di qualche metro) e 5-7 energizzazioni eseguite sia esternamente sia internamente allo stendimento utilizzando le metodologie illustrate nelle figure 9 e 12.
Con i dati registrati si costruiscono dei grafici in funzione dei tempi di arrivo (individuati, come nel caso della down-hole, nel punto di inizio dell’impulso sulle tracce sismiche registrate da ogni geofono) e della distanza dei sensori rispetto alla sorgente; infine si calcolano le velocità dei singoli strati e, con opportune metodologie, i loro spessori.
Pregi: è poco costosa e rapida da eseguire; è possibile usare le onde P ed Sh.
Difetti: richiede stendimenti la cui lunghezza deve essere 3-5 volte la profondità che si vuole investigare; l’elaborazione dei dati è più complessa rispetto alle down-hole; la metodologia è affetta dal problema delle inversioni di velocità nel sottosuolo che non generano onde rifratte; inoltre non rileva gli strati troppo sottili in relazione alla loro profondità ed alla distanza tra i geofoni (altresì nota come spaziatura intergeofonica).
Masw.
Usa la stessa configurazione della sismica a rifrazione (anche se con lunghezze degli stendimenti molto minori e spaziature intergeofoniche comprese nel range 0.5-3 metri), ma cambia radicalmente l’approccio al problema in termini di onde generate e di metodologie di calcolo; difatti, consente di ricostruire il profilo di velocità delle onde Sv basandosi sulla misura e relativa analisi delle onde di Rayleigh di figura 8, generate con il metodo di figura 9, che si propagano in un semispazio stratificato.
Si noti che, mentre con la tecnica down-hole il coefficiente di Poisson è ricavato direttamente (qualora si energizzi usando sia onde P sia onde Sh), nella masw lo stesso è ipotizzato.
Pregi: è poco costosa e rapida da eseguire; la lunghezza degli stendimenti è dell’ordine della profondità che si vuole investigare.
Difetti: l’elaborazione dei dati è la più complessa tra le metodologie descritte.
Come possiamo rimediare?
Negli ultimi due anni ho chiesto a numerosi geofisici di eseguire indagini di sismica a rifrazione e di masw su rocce fratturate usando piastre di diversa ampiezza per valutare l’influenza dell’effetto scala; purtroppo, nonostante l’entusiasmo iniziale, nessuno ha partecipato; diversamente, avrei potuto studiare lo stesso effetto scala che esiste tra un teatro reale ed il suo modello con lo scopo di trovare un fattore di correzione delle velocità capace di tenere conto delle differenti ampiezze correnti tra le onde generate artificialmente con le indagini geofisiche e quelle sismiche reali.
Chiudo, affermando che la dimensione della sorgente non è l’unica parametro che influenza la determinazione della velocità nelle rocce; ma si sa, in statistica è bene affrontare una variabile alla volta.
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